Più naked sushi per tutti!

Naked sushi © Mark Castellani Renèe Liszkai

In principio fu uno shooting.

Per The Cube, per la precisione.

Qualche tempo fa, Marco Castellani & Renèe Liszkai mi hanno chiesto di distribuire artisticamente sushi (ma anche cioccolato, pasta e caramelle) su alcune modelle, e io non mi sono certo tirata indietro.

Peraltro, al Naked Sushi (o Nyotaimori), ci pensavo da tempo.

Da un lato mi ha sempre divertita il tentativo di venderlo come antica pratica carica di sensualità orientale e altri funambolismi da copy stanco. È  bastata l’occhiata di un amico giapponese per capire che in Giappone non è considerato proprio il massimo dell’eleganza.

D’altro canto, ho sempre trovato intrigante il modo in cui mescola con nonchalance cibo e sexiness e riesce a dare un’allure sexy al sushi, o a qualsiasi cibo coinvolto.

Oltre alle possibilità estetiche molto interessanti che offre. Perché, secando me, l’eleganza del risultato dipende da come viene realizzato, più che dalla pratica in sé.

Poco dopo, incuriositi dalla cosa, gli amici di Ohhh mi hanno chiesto di scrivere un post con tutti i consigli per fare un Nyotaimori perfetto in casa.

Poi abbiamo pensato che mancasse un corso dal vivo e insomma, per farla breve, il 17 settembre a Milano, all’interno del Fashioncamp.it, abbiamo organizzato il primo workshop di Naked Sushi Per Ragazze, stavolta con modelli maschi.

Scusate, mancavano al mio curriculum.

Durante il corso, ho mostrato come procedere realizzando una composizione live sul primo modello; poi le partecipanti si sono cimentate con il secondo modello; infine ho mostrato una variante giocosa creata per Ohhh. Curiosi? Guardate qui:

Beh, ora che ho seminato sushi su diverse persone, posso dire che non c’è grande differenza nel naked sushi su maschi e femmine, se non un eventuale gusto personale. L’esperienza è più ludica che sensuale, anche se, come tutto nella vita, dipende un po’ dall’atmosfera che hai intenzione di creare.

E soprattutto ho una certezza: il naked sushi di Samantha di Sex and the city è una stupidata colossale.

Credits: foto 1 © Mark Castellani Renèe Liszkai; foto 2 © Giovanni Zuccaro per Direzione ostinata

Pane e sushi

 INTERNO GIORNO, sala di un ristorante –

Seduti ad un tavolo, da un lato una coppia sui sessant’anni, dall’altro una giovane donna sulla trentina.

Il provvidenziale ristorante, curioso esemplare di fusion estrema, dispone di un menù siciliano, uno coreano e uno giapponese (sic), ed è pertanto in grado di soddisfare sia le esigenze conservatrici della coppia che la tossicodipendenza da sushi della giovane donna, che infatti non esita ad ordinarne una discreta quantità, con visibile soddisfazione.
Non appena il cameriere lo porta in tavola, la coppia attempata si trova faccia a faccia con una portata di sushi per la prima volta nella vita.

uomo: (sinceramente stupito) Ma si mangia?
giovane donna: E’ sushi, papà.
uomo:
giovane donna: Vuoi assaggiare?
uomo: Ma quella roba bianca cos’é? Mollica di pane?
giovane donna: No, papà, è riso.
uomo: Ah. Sembra mollica di pane.
giovane donna: Assaggia, è buono!
uomo: (nicchia) Mmph… non so se sono pronto…
govane donna: Non sai cosa ti perdi! E’ buonissimo! (intinge un pezzo di sushi nella salsa di soia e lo mangia)
uomo: (stupito) Ma lo mangi così? Senza pane?
giovane donna: (sorride) Papà, si mangia così il sushi!
uomo: (alla moglie) Hai visto questi piatti moderni? No no, non fa per me!
donna: (conciliante) Si, dai, però è bello da guardare.

Sushi dallo spazio profondo (parte II)

[Seconda parte]

Riassunto delle puntate precedenti: una food stylist si imbatte in una qualità di sushi sconosciuto. Presa dalla sua tossicodipendenza da wasabi, seppur con qualche esitazione, lo ingurgita, salvo poi interrogarsi a lungo sulla natura ontologica del sushi in questione. In mancanza di ulteriori informazioni, accetta la tesi più probabile tra le sue ipotesi, a onor del vero non basate su alcun dato oggettivo, ovvero che si tratti dell’orecchia di un vulcaniano.

Risoluzione: Qualche mese dopo, a Milano, perlustrando i sushi bar più malfamati in cerca di un’altra dose, si imbatte nella creatura misteriosa.

La nostra eroina ha un moto di commozione nel scoprire che ciò che ha mangiato ha un nome, che si produce sul pianeta terra e, soprattutto, che potrà continuare a guardare Star Trek senza sensi di colpa.

Si chiama hokkigai in giapponese, surf clam in inglese e vongola artica in italiano.

La food Stylist in questione da qualche giorno dorme sogni più tranquilli.

Sushi dallo spazio profondo

A volte la multiformità della creato si esprime in forme e luoghi inaspettati.

Nel mezzo del tuo piatto, per esempio.

Mi trovavo qualche giorno fa in giro per la Catalogna, quando, colta dalla mia solita crisi di astinenza da sushi, mi sono infilata in un sushi bar con tendenze fusion.

E qui si può già vedere come il vizio porti su strade pericolose.

In breve, nel piatto di sushi misto, dopo aver spazzolato i maki e il sashimi, la mia coscienza è stata presto costretta a prendere atto di un nigiri inquietante per forma e colore, sino ad allora freudianamente rimosso.

Sopra la polpettina di riso, stava beatamente disteso un pezzo di qualcosa che la logica imponeva esser pesce, ma che in verità ricordava molto di più un’orecchia di mr. Spock in preda a violenta infiammazione.

Ora, con tutta la stima che provo per mr. Spock, mi pareva brutto banchettare con le sue orecchie, o, peggio, quelle di suo nipote.

E tuttavia, la mia parte razionale aveva un argomento abbastanza inattacabile nel sostenere che mr. Spock non fosse mai esistito.

La sobillatrice sostenava anche che, trattandosi di pesce, quel sushi doveva essere buono e che sarebbe stato sciocco lasciarlo lì, oltre che discriminatorio nei confronti della popolazione di Vulcano.

Convinta da cotanta argomentazione mi sono decisa ad assaggiarlo.

Effettivamente, distogliendo la mente da forma, colore e associazioni cinematografiche, non era male.

Un semplice sapore di calamaretto, anche un po’ gommoso.

Una breve meditazione su che parte del pesce fosse (orecchia? pinna? squama carnosa? ali?) ha prodotto una serie di idee  più adatte ad un libro di fantascienza che ad uno di cucina.

Come se non bastasse, all’uscita ho notato un vassoio pieno di queste amene conformazioni commestibili, che oltre a lasciarmi una curiosa senzazione di surrealismo gastronomico, mi ha simpaticamente confuso le idee.

I guai sono arrivati dopo.

Quando la mente, ripresasi dalla fatica di convincermi ad assaggiare la pietanza, è entrata nella modalità ‘tassonomia‘ e ha preteso di attaccare una bella etichetta sotto alla foto del piatto.

A nulla è valso il ritorno al ristorante (sempre chiuso al mio passaggio), né l‘esegesi del menù quadrilingue, sperando che il piatto del giorno di quel giorno fosse anche parte del menù.

A nulla sono valse le ricerche su internet, le investigazioni in tutti i sushi bar di Barcellona sperando in una copia del loro cugino catalano.

Niente.

Buio.

Zero.

Curiosamente, le orecchie del buon vecchio Spock è ancora l‘ipotesi più plausibile.

[To be continued]